Relazione relativa al corso accademico integrativo “Il Medio Oriente dal 1948 ad oggi: Stato, società e relazioni internazionali”, svoltosi presso l’Università degli Studi di Genova tra l’aprile ed il maggio del 2015.
Commento sull’articolo “La minaccia islamista tra revisionismo, transnazionalismo e pan-islamismo“.
Il termine “islamismo” è stato spesso utilizzato, come sottolineato provocatoriamente da Mahmood Mamdani, per distinguere i regimi islamici dai regimi islamisti, ovvero quelli che minano l’equilibrio dello status quo a livello regionale. In merito a ciò si può dunque fare riferimento al concetto di moderazione, intesa come livello di aggressività per quanto riguarda la politica estera. In questo senso, per evitare giudizi di valore, si può parlare di regimi conservatori e regimi revisionisti. Ma anche di stabilità, intesa come livello di conservazione di alcuni rapporti di potere interni ed esterni al regime. Tuttavia, la mancanza di una grande quantità di dati empirici circa i movimenti islamisti, in quanto spesso banditi in ambito regionale e nazionale, crea non poche difficoltà agli studiosi.
In Iran e Sudan le forze politiche islamiste sono riuscite a prendere il potere, anche se con dinamiche ben diverse, minacciando così l’equilibrio della regione dal punto di vista occidentale. Da un lato la concezione teocratico-repubblicana del leader iraniano Ruhollah Khomeyni, che ha ricoperto il ruolo di polo di attrazione dei movimenti islamisti scontrandosi però, per esempio, con l’esigenza di non venire emarginato nell’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio. Dall’altro, il Sudan che convocò a Khartoum la prima importante Conferenza Popolare Araba e Islamica, ma che non aveva risorse economiche per divenire «trampolino di lancio di un’internazionale islamista» e che venne isolato dopo l’attentato al presidente egiziano Hosni Mubarak da parte di alcuni uomini affiliati al movimento islamista. Questi due casi, inoltre, evidenziano come le dinamiche della politica esterna siano influenzate, oltre che dal sistema internazionale, anche contemporaneamente dalle situazioni interne ai vari Paesi.
La legittimazione del potere politico in Medio Oriente passa attraverso quattro livelli: tribù, Stao-nazione, “nazione araba” e Islam. Inoltre, «la non corrispondenza tra confini statali e comunità politiche ha reso sfumato il confine tra politica interna ed estera» e alimentato il concetto di transnazionalità. Vi sono stati anche alcuni dialoghi costruttivi tra i Paesi arabi al fine di stabilire dei capisaldi che reggessero questa transnazionalità e creando dibattiti circa i rapporti da tenere con Occidente e Israele, nonché sui fattori che definiscano legittimo un governo dal punto di vista islamico. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, uno dei possibili punti comuni è l’applicazione della Shari’a, anche se ciò comporta alcune problematiche.
Il demo-islamismo, inteso come la concezione di governo dei movimenti islamisti mirata alla conciliazione tra una legittimazione islamica ed una legittimazione popolare, mina alle fondamenta i regimi islamici. In questo caso si potrebbe parlare del “modello turco” capitanato da Recep Tayyip Erdoğan e dal suo AKP, portatore di un islam conservatore ma caratterizzato da un modus operandi in politica estera improntato sul sostegno delle proprie idee pur senza prevaricare le idee altrui. Un altro aspetto che spaventa i regimi islamici è la capacità dell’islamismo di mobilitare per via transanazionale le masse.
Risulta opportuno anche riportare la seguente tesi: «Coloro che invocavano la riunificazione dell’umma non pensavano ad essa come ad un progetto di integrazione sovranazionale, ma volevano esprimere una reazione alla frammentazione del mondo arabo-islamico operata dalle potenze coloniali», aspetto spesso travisato dall’Occidente.
Infine, nonostante l’idea di Califfato costituisca il migliore dei governi possibili perché concepito da Dio stesso, i movimenti islamisti hanno l’intenzione di instaurare un «buon governo» islamico nazionale.
Di questo saggio mi ha colpito il “paragone” (se così mi è concesso chiamarlo) tra il Comunismo e l’Islamismo, uno dei cui punti comuni è la concezione di un modello di civiltà alternativa ed una delle cui differenze è il relativo accordo del secondo contenitore ideologico con il capitalismo. Mi sarebbe molto piaciuto assistere anche ad una lezione improntata esclusivamente su questi due importanti contenitori ideologici dell’ultimo secolo.
In secondo luogo, vorrei riportare una mia modesta considerazione. Più cerco di informarmi, più prendo coscienza della generale (con alcune eccezioni, per fortuna) inadeguatezza del giornalismo italiano nei confronti di tematiche estere, soprattutto per quanto riguarda l’Islam. Inoltre, giudico il popolo italiano (ammesso che si possa parlare di popolo) come un popolo privo di capacità di critica soprattutto a causa di progressivi e programmatici tagli al settore scolastico, fattore che trasforma l’innata sensazione di serenità dell’uomo nello stare con i propri “simili” in xenofobia e razzismo. A conferma di ciò basta pensare alla vergognosa campagna mediatica populista (nel senso negativo del termine) nei confronti dell’Islam, spesso cavalcata da politici postideologici che pur di conquistare una fetta di consenso seminano odio verso il “diverso”. Questo cocktail composto da un popolo acritico, da una classe giornalistica raramente in grado di interpretare situazioni di questo genere e di comunicarle senza giudizi di valore e da una classe politica spesso vergognosamente (e talvolta subdolamente) populista mi lasciano ben poche speranze per il futuro nel nostro Paese. Il tutto, sia dal punto di vista della comprensione della politica estera, sia dal punto di vista della reazione a tematiche interne che hanno a che vedere con il prossimo “diverso”.