Relazione relativa al seminario accademico “Bosnia-Erzegovina 20 anni dopo. Un futuro perduto? Memoria e prospettive di un Paese vicino”, svoltosi presso l’Università degli Studi di Genova nel marzo del 2015.
Dopo alcune riflessioni in merito, ho deciso di scrivere una relazione sul seminario concentrata su due importanti spunti di riflessione sui quali esso mi ha permesso di elaborare, a grandi linee riconducibili rispettivamente ai due incontri nei quali è stato diviso: il primo è sul principio di autodeterminazione dei popoli, mentre il secondo è sulla definizione giuridica di “genocidio”.
PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI. Viene solitamente definito come principio di autodeterminazione dei popoli il principio cui si appella un popolo sottomesso a dominazione straniera secondo il quale possa determinare il proprio destino acquisendo l’indipendenza, decidendo di integrarsi ad un altro Stato, oppure semplicemente decidendo di scegliere autonomamente il proprio regime politico. Spesso, la necessaria coincidenza tra confini politici e confini culturali (e quindi fra Stati e nazioni) viene considerata come implicazione logica di tale principio, almeno nell’immaginario comune. Si consideri per esempio la Jugoslavia di Tito e la relativa filastrocca per lo più recitata dai suoi estimatori: «Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito».
Considerando tali definizioni, una domanda sorge spontanea: dal punto di vista culturale in genere, quanto può essere composito uno Stato per esser considerato nazione? Ha senso definire come nazione una confederazione di Stati culturalmente ed evidentemente diversi tra loro? Secondo le moderne definizioni di diritto, un’entità può essere definita Stato se risulta caratterizzata da un popolo che vive all’interno di un territorio con confini ben delineati e assoggettato ad un governo sovrano. Di conseguenza, per esempio, non possono essere considerati uno Stato la Palestina a causa della non completa sovranità del loro governo ed il Kurdistan, il cui territorio è controllato da diverse entità statali mediorientali. Invece, nonostante la Jugoslavia potesse esser considerata Stato a tutti gli effetti, essa non poteva esser considerata come un’unica nazione. Perché? È evidente come le definizioni inerenti al concetto di Stato non considerino la cultura come parametro determinante. Può esser definita come nazione l’Italia? Oppure, muovendoci oltre oceano, possono esser così definiti gli Stati Uniti d’America? Ovviamente risulta impossibile ottenere un termine di paragone biunivoco per valutare il valore assoluto delle differenze culturali all’interno del territorio di uno Stato. Tuttavia, sarebbe assurdo non riconoscere la grande differenza culturale tra il Nord Italia ed il Sud Italia, senza alcun giudizio di valore in merito, chiaramente. Quindi, quando più culture risultano inserite all’interno del “contenitore” di cultura nazionale? Sembrerà apparentemente banale, ma questo status sussiste nel momento in cui ogni sottocultura (vocabolo non implicante giudizio di valore) riconosce in maniera univoca la sua appartenenza alla cultura nazionale, così come la cultura nazionale deve riconoscere il suo ramificarsi. È necessario quindi un riconoscimento biunivoco, se vogliamo, poco evidente in un’Italia moderna oscurata da una crisi di valori mai così “spessa”, ma molto evidente negli Stati Uniti d’America.
DEFINIZIONE DI GENOCIDIO. Secondo una definizione adottata dall’ONU, vengono definiti come genocidio il gli «atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Come ogni definizione, essa va interpretata nella maniera più “stretta” possibile, ovvero lasciando meno spazio possibile alle interpretazioni. Da ciò consegue che condizione necessaria affinché un omicidio possa esser considerato genocidio sia l’«intenzione» di distruggere almeno «in parte» un gruppo. Se sulla definizione come genocidio dell’omicidio di un individuo in funzione della sua appartenenza al gruppo si può discutere (un individuo da solo costituisce evidentemente un gruppo?), sull’intenzionalità non esiste margine di discussione. Grazie a questo cavillo, dimostrando che la sua intenzione era solo quella di allontanare gli oppressi da determinati territori e non quella di sterminarli in quanto appartenenti ad un gruppo, la Serbia è riuscita ad evitare lo status di genocida di fronte ai tribunali internazionali. Questa vicenda evidenzia quanto, nonostante si cerchi di rendere una definizione quanto più possibile attinente alla realtà, esse presentino comunque un gap incolmabile, al punto da rendere in questo caso quasi antitetiche la sfera della realtà e la sfera della “stretta” interpretazione.
Infine, si potrebbe elaborare un’ultima riflessione su due lacune circa la definizione di genocidio, una delle quali evidentemente colmabile. Questi sono anni di importanti rivendicazioni da parte della comunità omosessuale. Ma se un giorno un popolo decidesse di effettuare un omicidio di massa di una parte della comunità omosessuale, il massacro costituirebbe genocidio? Secondo la definizione attuale no. Ma, se tale lacuna potrebbe essere colmata con l’aggiunta di una (rivedibile esteticamente ma giuridicamente efficace) espressione del tipo “gruppo caratterizzato da medesima sessualità”, come potrebbe essere previsto il genocidio, per esempio, di una comunità di ragazzi/e biondi/e? Il colore di capelli, da solo, non determina un’etnia. Queste tematiche sollevano evidentemente il problema della necessaria attinenza delle definizioni alla realtà. Tuttavia, effettuando una metafora matematica, le definizioni si avvicinano asintoticamente alla realtà, senza però poterla mai intersecare completamente.